domenica 16 agosto 2015

MAURO GHIGLIONE | CHANTAL MICHEL: L'IMMAGINE È SERVITA - PALAZZO TASGLIAFERRO, ANDORA




MAURO GHIGLIONE | CHANTAL MICHEL
L'IMMAGINE È SERVITA
Delizie e veleni di un immaginario di massa
a cura di Viana Conti
Palazzo Tagliaferro
Largo Milano - Andora
13/98/2015 - 18/10/2015

Se il pubblico crede di vedere Chantal Michel nelle immagini esposte in mostra si sbaglia, perché quella che si veste e traveste, muta la sua identità di genere, si spoglia segretamente per riapparire sdoppiata, moltiplicata per quattro, cinque volte, come in un gioco di specchi, è giusto la sua sparizione nella trappola strutturale e concettuale dell’opera d’arte. Quella che voi vedete negli scenari dei miei set fotografici – afferma infatti l’artista - non sono io, ma quello strumento duttile e disponibile che è il corpo di cui mi servo: il mio, ma senza intenzioni di auto-identificazione. Nei miei lavori presento, in realtà, la messa in opera delle mie trappole.
Si tratta infatti di dispositivi e di atteggiamenti tattici atti a sedurre, catturare, svelare, turbare, l’intrusione dello sguardo altrui. Le sue immagini fotografiche non sono lontane, mentalmente, dalle provocazioni, tra Dada e Nouveau Réalisme, dei Tableaux-pièges di Daniel Spoerri. Ciò che Chantal Michel presenta di sé è la sua reiterata sparizione, la sua identità negata, la trasmutazione continua di sé come soggetto assente dalla rappresentazione, presente, al di là del quadro, come soggetto in fuga, a livello cosciente o inconscio, reale o subliminale. Prendendo le distanze dal suo quotidiano, per calarsi in mondi altri, l’artista svizzera innesca botole mentali e visionarie in cui rischia di cadere lei stessa. Le sue sortite identitarie sono una sorta di prese di distanza dal proprio nido – afferma - per un’avventura esterna in universi ricostruiti, illusori, in cui inquietudine e rassicurazione convivono. La figura della casa, come capanna contadina o castello nobiliare, viene indagata nei suoi spazi interni, segreti, nei suoi arredi, ma anche nei suoi rituali di accoglienza, servizio, ospitalità: ecco il ripiano della tavola imbandita, il pane, i biscotti, il condimento, la grossa rapa, i servizi di porcellana, la teiera d’argento, le bottiglie di liquore. Può spesso accadere che la presenza degli invitati o degli avventori, a tavola, sia esclusa, non quella del personale di servizio, che sciama da una sala all’altra, in inappuntabile uniforme da cameriere o cameriera, con tanto di crestina e grembiule candidi e inamidati. Un primo piano del soggetto, la sua immobilità nello spazio, una scala, un angolo della stanza, una cassapanca, un tendaggio, una porta socchiusa, non cessano di rinviare alla Poetica dello Spazio di Gaston Bachelard, alla sua interpretazione emozionale e fenomenologica della dimora. Chantal Michel proietta nelle sue opere fotografiche le sue rêveries, sorprendendo se stessa non meno dello spettatore, ora rispondendo ad una richiesta, ora lasciandosi condurre dal caso. Quando la invitano a far rivivere l’atmosfera di un castello è la prima a scoprire che, nella ricreazione di un mondo estraneo, ci si può perdere o ritrovare, si può entrare in risonanza, insospettabilmente, con realtà e soggetti sconosciuti, si può acquisire una nuova modalità dello sguardo.

La mostra ideata da Mauro Ghiglione per le sale del piano nobile di Palazzo Tagliaferro, Andora, è paradigmatica, esponendo tre tipologie di opera rappresentative della sua riflessione sull’immagine in via di sparizione (Memory e Principe Azzurro, due dittici su formelle di sale rosa dell’Himalya), sulla crescita di una produzione tanto incontrollata quanto sconsiderata (Sette pasti per sette giorni, installazione di sette crogioli di grafite nera ricolmi di riso bianco), sull’aspetto subliminale del piacere erotico convogliato verso il cibo, che assume la Torta Nuziale, con grande fallo al culmine, come rappresentazione simbolica dell’amore contrattuale del matrimonio, prefigurandone anche, fatalmente, l’esito (Fine dell’Assedio, installazione a parete di una lente di ingrandimento focalizzata sulla foto, di fine ottocento, di un disegno pornografico, ancora ottocentesco; dal braccino di sostegno, di metallo azzurro, pende, significativamente, un fragile cuoricino in vetro rosso). La stampa su lastre di sale rosa himalyano, molto seducente e coinvolgente anche a livello estetico, trova la sua motivazione, paradossale, nel fatto che il supporto corroderà, entro un certo limite di tempo, l’immagine, ma – afferma l’artista - non sarà come se non fosse mai esistita. A parte la formella con la descrizione dell’opera stampata su metallo, che ne proverà l’esistenza, ne resterà anche memoria nell’acqua assorbita dalle lastre di sale, durante l’esposizione all’aria, accogliendo l’ipotesi della memoria dell’acqua come scientificamente possibile . Come i pesci nell’acqua – scrive Mauro Ghiglione - noi saremmo immersi in un habitat di immagini che conserverebbero un ricordo di noi nei tempi a venire. Non è lo storico dell’arte francese Jean Clair, d’altronde, a legittimare questa possibilità quando, nel saggio L’ultima macchina, pubblicato nel volume curato da Harald Szeemann Le macchine celibi, Electa edizioni, 1989, Milano, scrive: Gli uomini, un giorno, scompariranno, ma resteranno le loro immagini demoltiplicate, che si ricorderanno di loro. E piangeranno senza più sapere perché. L’installazione, a dimensione variabile, Sette pasti per sette giorni, delinea un’ampia, dolce, curva (la retta in natura non esiste, in quanto astrazione fisica), disegnata dalla posizione, a terra, dei sette crogioli di grafite nera, ricolmi di riso bianco - il cibo più consumato sul pianeta terra - i beccucci dei crogioli sono rigorosamente rivolti all’interno della curva che definiscono, in assetto di erogazione oculata del contenuto trasformato dall’alta temperatura interna; incompatibili sarebbero altre presenze verticali nello spazio. Si percepisce, davanti all’opera, come la scelta del fattore estetico diventi perno del pensiero e del concetto che l’autore vuole trasmettere: in questo caso il richiamo ad una responsabilità da condividere, rispetto alla gravità del problema. L’obiettivo della crescita illimitata ha il suo motore - infatti - nell’ottica del profitto, con esiti disastrosi per il pianeta e l’umanità. Non solo la società è ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno, scrive Serge Latouche nel suo Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri editore, 2008, citando, a sua volta, François Flahaut da Le Paradoxe de Robinson. Capitalisme et societé, Mille et une nuit, Paris, 2005, quando dichiara che L’idea che la crescita economica costituisca un fine, in sé implica che la società sia un mezzo.

Immagine: Chantal Michel