MAURO GHIGLIONE | CHANTAL
MICHEL
L'IMMAGINE È SERVITA
Delizie e veleni di un immaginario di
massa
a cura di Viana Conti
Palazzo Tagliaferro
Largo Milano -
Andora
13/98/2015 - 18/10/2015
Se il pubblico crede di vedere Chantal
Michel nelle immagini esposte in mostra si sbaglia, perché quella che si veste e
traveste, muta la sua identità di genere, si spoglia segretamente per riapparire
sdoppiata, moltiplicata per quattro, cinque volte, come in un gioco di specchi,
è giusto la sua sparizione nella trappola strutturale e concettuale dell’opera
d’arte. Quella che voi vedete negli scenari dei miei set fotografici – afferma
infatti l’artista - non sono io, ma quello strumento duttile e disponibile che è
il corpo di cui mi servo: il mio, ma senza intenzioni di auto-identificazione.
Nei miei lavori presento, in realtà, la messa in opera delle mie trappole.
Si tratta infatti di dispositivi e di atteggiamenti tattici atti a sedurre,
catturare, svelare, turbare, l’intrusione dello sguardo altrui. Le sue immagini
fotografiche non sono lontane, mentalmente, dalle provocazioni, tra Dada e
Nouveau Réalisme, dei Tableaux-pièges di Daniel Spoerri. Ciò che Chantal Michel
presenta di sé è la sua reiterata sparizione, la sua identità negata, la
trasmutazione continua di sé come soggetto assente dalla rappresentazione,
presente, al di là del quadro, come soggetto in fuga, a livello cosciente o
inconscio, reale o subliminale. Prendendo le distanze dal suo quotidiano, per
calarsi in mondi altri, l’artista svizzera innesca botole mentali e visionarie
in cui rischia di cadere lei stessa. Le sue sortite identitarie sono una sorta
di prese di distanza dal proprio nido – afferma - per un’avventura esterna in
universi ricostruiti, illusori, in cui inquietudine e rassicurazione convivono.
La figura della casa, come capanna contadina o castello nobiliare, viene
indagata nei suoi spazi interni, segreti, nei suoi arredi, ma anche nei suoi
rituali di accoglienza, servizio, ospitalità: ecco il ripiano della tavola
imbandita, il pane, i biscotti, il condimento, la grossa rapa, i servizi di
porcellana, la teiera d’argento, le bottiglie di liquore. Può spesso accadere
che la presenza degli invitati o degli avventori, a tavola, sia esclusa, non
quella del personale di servizio, che sciama da una sala all’altra, in
inappuntabile uniforme da cameriere o cameriera, con tanto di crestina e
grembiule candidi e inamidati. Un primo piano del soggetto, la sua immobilità
nello spazio, una scala, un angolo della stanza, una cassapanca, un tendaggio,
una porta socchiusa, non cessano di rinviare alla Poetica dello Spazio di Gaston
Bachelard, alla sua interpretazione emozionale e fenomenologica della dimora.
Chantal Michel proietta nelle sue opere fotografiche le sue rêveries,
sorprendendo se stessa non meno dello spettatore, ora rispondendo ad una
richiesta, ora lasciandosi condurre dal caso. Quando la invitano a far rivivere
l’atmosfera di un castello è la prima a scoprire che, nella ricreazione di un
mondo estraneo, ci si può perdere o ritrovare, si può entrare in risonanza,
insospettabilmente, con realtà e soggetti sconosciuti, si può acquisire una
nuova modalità dello sguardo.
La mostra ideata da Mauro Ghiglione per le
sale del piano nobile di Palazzo Tagliaferro, Andora, è paradigmatica, esponendo
tre tipologie di opera rappresentative della sua riflessione sull’immagine in
via di sparizione (Memory e Principe Azzurro, due dittici su formelle di sale
rosa dell’Himalya), sulla crescita di una produzione tanto incontrollata quanto
sconsiderata (Sette pasti per sette giorni, installazione di sette crogioli di
grafite nera ricolmi di riso bianco), sull’aspetto subliminale del piacere
erotico convogliato verso il cibo, che assume la Torta Nuziale, con grande fallo
al culmine, come rappresentazione simbolica dell’amore contrattuale del
matrimonio, prefigurandone anche, fatalmente, l’esito (Fine dell’Assedio,
installazione a parete di una lente di ingrandimento focalizzata sulla foto, di
fine ottocento, di un disegno pornografico, ancora ottocentesco; dal braccino di
sostegno, di metallo azzurro, pende, significativamente, un fragile cuoricino in
vetro rosso). La stampa su lastre di sale rosa himalyano, molto seducente e
coinvolgente anche a livello estetico, trova la sua motivazione, paradossale,
nel fatto che il supporto corroderà, entro un certo limite di tempo, l’immagine,
ma – afferma l’artista - non sarà come se non fosse mai esistita. A parte la
formella con la descrizione dell’opera stampata su metallo, che ne proverà
l’esistenza, ne resterà anche memoria nell’acqua assorbita dalle lastre di sale,
durante l’esposizione all’aria, accogliendo l’ipotesi della memoria dell’acqua
come scientificamente possibile . Come i pesci nell’acqua – scrive Mauro
Ghiglione - noi saremmo immersi in un habitat di immagini che conserverebbero un
ricordo di noi nei tempi a venire. Non è lo storico dell’arte francese Jean
Clair, d’altronde, a legittimare questa possibilità quando, nel saggio L’ultima
macchina, pubblicato nel volume curato da Harald Szeemann Le macchine celibi,
Electa edizioni, 1989, Milano, scrive: Gli uomini, un giorno, scompariranno, ma
resteranno le loro immagini demoltiplicate, che si ricorderanno di loro. E
piangeranno senza più sapere perché. L’installazione, a dimensione variabile,
Sette pasti per sette giorni, delinea un’ampia, dolce, curva (la retta in natura
non esiste, in quanto astrazione fisica), disegnata dalla posizione, a terra,
dei sette crogioli di grafite nera, ricolmi di riso bianco - il cibo più
consumato sul pianeta terra - i beccucci dei crogioli sono rigorosamente rivolti
all’interno della curva che definiscono, in assetto di erogazione oculata del
contenuto trasformato dall’alta temperatura interna; incompatibili sarebbero
altre presenze verticali nello spazio. Si percepisce, davanti all’opera, come la
scelta del fattore estetico diventi perno del pensiero e del concetto che
l’autore vuole trasmettere: in questo caso il richiamo ad una responsabilità da
condividere, rispetto alla gravità del problema. L’obiettivo della crescita
illimitata ha il suo motore - infatti - nell’ottica del profitto, con esiti
disastrosi per il pianeta e l’umanità. Non solo la società è ridotta a mero
strumento e mezzo della meccanica produttiva, ma l’uomo stesso tende a diventare
lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno, scrive
Serge Latouche nel suo Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati
Boringhieri editore, 2008, citando, a sua volta, François Flahaut da Le Paradoxe
de Robinson. Capitalisme et societé, Mille et une nuit, Paris, 2005, quando
dichiara che L’idea che la crescita economica costituisca un fine, in sé implica
che la società sia un mezzo.
Immagine: Chantal Michel